Anche il convivente ha diritto ai permessi per assistere il disabile.
Un’importante sentenza della Corte Costituzionale, la n. 213 del 5 luglio 2016, depositata il 23 settembre 2016, ha dichiarato la illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con disabilità in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.
Come è noto, l’articolo citato, modificato dall’art. 24, comma 1, lett. a), della legge 4 novembre 2010, n. 183 del cosiddetto Collegato lavoro, prevede che il lavoratore dipendente che assiste persona con disabilità in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado (ovvero entro il terzo grado in casi particolari), ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito, coperto da contribuzione figurativa.
L’interpretazione costante era che tale norma non potesse applicarsi, però, a chi si trovasse nella condizione di convivente more uxorio (cioè senza aver formalizzato il matrimonio).
Pertanto, risulta di particolare interesse l’iter logico seguito dalla Corte nella sentenza 213/2016, perché ricostruisce la ratio legis dell’istituto del permesso mensile di cui all’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato nel corso del tempo (in uno scenario, altresì, di cambiamento normativo derivante dalla recente norma sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto, la legge 20 maggio 2016, n. 76).
In sintesi, la Corte riconosce che il permesso mensile deve considerarsi come espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell’assistenza di un parente disabile grave. Si tratta, quindi, di uno strumento di politica socio-assistenziale, che è <basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale>.
Inoltre, la tutela della salute psico-fisica del disabile, costituente la finalità perseguita dalla legge n. 104 del 1992, postula anche l’adozione di interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie <il cui ruolo resta fondamentale nella cura e nell’assistenza dei soggetti portatori di handicap> (cfr. Corte Costituzionale, sentenze n. 203 del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del 2005).
Secondo la Corte, quindi, l’interesse primario cui è preposta la norma in questione è quello di <assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall’età e dalla condizione di figlio dell’assistito> (cfr. Corte Costituzionale, sentenze n. 19 del 2009 e n. 158 del 2007).
Tanto più che i soggetti tutelati sono persone con disabilità in situazione di gravità, affetti cioè da una compromissione delle capacità fisiche, psichiche e sensoriali, tale da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione.
D’altro canto, la salute psico-fisica della persona disabile, quale diritto fondamentale dell’individuo tutelato dall’art. 32 Cost., rientra tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.). L’assistenza del disabile e, in particolare, il soddisfacimento dell’esigenza di socializzazione, in tutte le sue modalità esplicative, costituiscono fondamentali fattori di sviluppo della personalità e idonei strumenti di tutela della salute della persona bisognosa, intesa nella sua accezione più ampia di salute psico-fisica (cfr. Corte Costituzionale, sentenze n. 158 del 2007 e n. 350 del 2003).
Di conseguenza, il diritto alla salute psico-fisica, che comprende anche l’assistenza e la socializzazione, va garantito e tutelato al soggetto in situazione di gravità, non solo come singolo, ma anche in quanto facente parte di una formazione sociale per la quale, ai sensi dell’art. 2 Cost., deve intendersi <ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico> (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 138 del 2010).
La Corte ha, pertanto, sentenziato che, se tale è la ratio legis della norma in esame, è irragionevole che nell’elencazione dei soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito ivi disciplinato, non sia incluso il convivente della persona con disabilità in situazione di gravità.
L’esclusione del convivente dalla previsione di una norma che intende tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile costituisce una contraddittorietà logica con l’art. 3 Cost., e ciò in particolare nei casi in cui la convivenza si fondi su una relazione affettiva, tipica del “rapporto familiare”, nell’ambito della platea dei valori solidaristici postulati dalle “aggregazioni” cui fa riferimento l’art. 2 Cost. La Corte ha, infatti, più volte affermato che la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 Cost. e, in questo caso, l’elemento unificante tra le due situazioni è dato proprio dall’esigenza di tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile grave, nella sua accezione più ampia, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost.
Infatti, ove così non fosse, il diritto della persona con disabilità grave di ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita verrebbe ad essere irragionevolmente compresso, non in ragione di una obiettiva carenza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di un dato “normativo” rappresentato dal mero rapporto di parentela o di coniugio.
Da ciò consegue anche la violazione degli artt. 2 e 32 Cost., quanto al diritto fondamentale alla salute psico-fisica del disabile grave, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, dal momento che la norma in questione, nel non includere il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito, vìola gli invocati costituzionali, risolvendosi in un inammissibile impedimento all’effettività dell’assistenza e dell’integrazione.
Pertanto, d’ora in poi, si dovrà includere il convivente tra i soggetti beneficiari, in via ordinaria, del permesso mensile retribuito (oltre al coniuge e ai parenti o affini entro il secondo grado) di cui all’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992.
Sotto il profilo giuridico, è fuor di dubbio che dal momento del deposito della sentenza, avvenuto appunto lo scorso 23 settembre, non potrà più essere negata la concessione dei permessi lavorativi nel caso di convivenze di fatto, di coppie, cioè, che vivono more uxorio.
Sotto il profilo pratico, l’INPS (e verosimilmente anche il Dipartimento Funzione Pubblica) dovranno diramare circolari applicative e fornire istruzioni operative per l’applicazione della sentenza (già comunque vigente e cogente).
Da subito gli interessati potranno presentare domanda di concessione dei permessi lavorativi citando la sentenza n. 213 del 2016. È verosimile che gli uffici preposti al momento tengano in sospeso la concessione dei permessi, in attesa di indicazioni operative.